Dal momento dell'uscita del decreto
che dette inizio al Grande Terrore sono passati 75 anni. In questo
tempo nel centro abitato di Adžerom,
dove nel 1937 fu aperta una delle maggiori sezioni del GULag nella
Repubblica dei Komi [1],
hanno segato le torri, hanno appeso cortine al posto delle
recinzioni, hanno tappezzato di carta da parati rosa le celle di
isolamento della prigione, hanno avviato la raccolta dei funghi nei
cimiteri del lager e hanno incluso la storia del lager nel corso
scolastico di storia locale. Hanno reso abitabile il GULag.
Quando il vice-capo dell'amministrazione
distrettuale Aleksandra Baranovskaja passava nell'edificio dell'ex
ufficio del lager le veniva l'angoscia.
– Di notte è silenzioso, – ricorda, – e
all'improvviso i gradini scricchiolano come se qualcuno scendesse
per la scala. Esco – non c'è nessuno…
Baranovskaja è una nuova arrivata, gli spiriti dei
morti non turbano il sonno degli abitanti originari di Adžerom:
non ci sono superstizioni nel centro abitato, non ricordano crimini
clamorosi e anche se sono capitati dei suicidi sono stati, come
dicono qui, "sull'onda blu" (cioè in stato di
ubriachezza).
Certo, i bambini del collegio amano racconti
spaventosi su come di notte vaghino per i corridoi i fantasmi dei
reclusi (il collegio ha occupato tre edifici dell'ex amministrazione
del lager), ma sono bambini. E il collegio è pure correzionale.
Nei ricordi degli abitanti del luogo il lager si
presenta come un luogo poco notevole, pacifico e quasi idilliaco.
"C'era ed era, – dicono gli abitanti del luogo. – come una
fabbrica". Però i vecchi abitanti – le guardie del lager –
sono ricordati per cognome [2]:
Mel'nikov poteva sparare su una colonna disarmata di reclusi; la
moglie di Nikulin passava sempre avanti nei negozi ("Perché
devo stare in coda con voi mascalzoni?"), ma da Krajuchin è
venuto fuori un ottimo ispettore distrettuale: "Aveva sempre
con se vodka nella borraccia e cetrioli salati nella fondina".
A Adžerom
chiamavano le guardie "tiratori". "Perché
fucilavano", – spiegano tutti. Pare che si inorgogliscano un
po'.
Adžerom
nel sud della Repubblica dei Komi a 50 km da Syktyvkar [3]
è stato un borgo lager per circa 20 anni. Scaricarono i primi
deportati qui, sulla riva inabitabile del fiume Vyčegda,
nell'ottobre 1932. Vissero in rifugi interrati – le tracce dei
pali sono ancora visibili nel bosco. Abbatterono alberi, costruirono
baracche. Verso primavera di deportati ce n'era già qualche
migliaio.
Portarono gente dalle repubbliche baltiche, dalla
Polonia, dalla Finlandia. Nell'estate 1937 accanto ai centri abitati
dei deportati aprirono il campo di lavoro correzionale Lokčimskij.
Gli abitanti dei villaggi vicini raccontavano come vicino a loro
sull'alto corso del fiume Lokčim
andavano infinite colonne di zėki
[4].
Non tornavano indietro.
Capitale del lager con amministrazione, contabilità,
ospedale, magazzini, case della dirigenza del lager e perfino un
proprio aeroporto divenne il centro abitato di Pezmog (nel 1976 lo
ribattezzarono Adžerom
[5]).
Il resto sono leggende. Come il capo del lager tutti
i giorni festivi volasse a Mosca per andare al ristorante e per il
lager andasse con la propria automobile, che fino ad allora nella
Repubblica dei Komi non avevano mai visto. Come nella base agraria
del lager coltivassero cocomeri all'aperto (ad ognuno era preposto
uno zėk)
e la fame portasse al cannibalismo…
Ora Adžerom
è un placido centro abitato lontano dalle grandi strade. Il
numero di abitanti – circa mille – non cambia da qualche decina
di anni. I principali posti di lavoro sono statali: scuola,
collegio, amministrazione. Gli uomini si arruolano per guadagnare al
Nord, i ragazzi vanno a studiare a Syktyvkar.
Il centro abitato è cresciuto letteralmente dal
lager. Più di meta degli abitanti sono discendenti di reclusi,
deportati e guardie del lager. Le baracche, l'ospedale del lager,
l'amministrazione e la prigione adesso sono appartamenti, dacie e
condomini. Si sono conservati perfino i toponimi: la "base
agraria" (qui i reclusi coltivavano patate e pomodori),
"Shanghai" (qui vivevano i reclusi nelle baracche), il
Cremlino (qui viveva il capo del lager), l'"aeroporto"…
Quando vai a Adžerom,
ti aspetti di incontrare baracche semidistrutte e cupe rovine di
lager. In realtà le mazanki
[6]
– case spalmate di calce – sono state da tempo coperte di
rivestimenti, i resti delle palizzate e delle torri sono stati
portati via come legname. E se il GULag, che ha determinato
l'immagine di Inta o di Vorkuta [7],
si legge nella loro architettura non meno che nei loro archivi,
Adžerom
ha nascosto il passato di lager dietro l'imbiancatura fresca,
i depositi di legname, gli orti, le carte da parati variopinte e le
aiole fiorite. Si è separata da esso con comodità di campagna. Non
l'ha distrutto, ma l'ha coperto, l'ha reso abitabile e riscaldato,
come i nuovi abitanti rendono abitabili case un tempo abbandonate.
Ai lati delle strade a Adžerom
sono ancora visibili le rovine di legno delle abitazioni del lager e
quelle di mattoni dei porcili abbandonati degli anni '60. Per il
centro abitato sono passati i tre principali progetti economici
dell'URSS: il GULag staliniano, l'allevamento suino di Chruščëv,
le migliorie agricole di Brežnev.
Gli ultimi due sono bruciati senza uscire dai confini del proprio
tempo. Il progetto "GULag" si è rivelato il più
massiccio: l'architettura e lo spirito del lager vivono ancora.
La loro croce
La scuola di Adžerom
non sta sulle ossa. Questa è la prima cosa che vi dirà
qualsiasi insegnante. Insomma, tutti dicono che da noi la scuola è
sulle ossa, ma il cimitero del lager è a 300 metri e se dei
ragazzini hanno trovato un teschio – è successo proprio
dall'altra parte del centro abitato.
La storia del GULag a scuola va nelle lezioni di
lingua Komi e nell'ambito del corso di storia locale. Tiene il corso
Zinaida Ivanovna, a cui "questo tema", come dice, è stato
rifilato. Insieme a questo le è stata rifilata anche la pratica –
70 ore di lavoro, per cui gli scolari ricevono circa 1500 rubli [8]
del budget dell'amministrazione distrettuale e della fondazione
"Pokajanie" [9]
di Syktyvkar. Quest'estate nell'ambito della pratica i ragazzi hanno
riparato una recinzione e hanno decorato una palestra. E le
ragazzine sono andate per le case, hanno raccolto ricordi del GULag.
– Cosa gli dite alle lezioni? – chiediamo a
Zinaida Ivanovna.
– Beh, eravamo in prigione qui colpevoli senza
colpa. Ma perché eravamo in prigione – ve lo diranno alle lezioni
in 9.a classe [10].
– Ma i bambini hanno letto Solženicyn?
– A letteratura forse l'hanno anche letto, solo
perché? – si getta Zinaida Ivanovna. – Antonyč
dice che sul nostro Lokčimlag
[11] in Solženicyn
c'è una frase in tutto.
La memoria delle repressioni a Adžerom
in generale è delegata ad Antonyč.
Il direttore della Casa dei Pionieri [12]
del centro abitato di Kortkeros (centro distrettuale vicino a
Adžerom)
Anatolis Antanas Smilingis, per gli abitanti del luogo Antonyč
[13] è il Solženicyn
e il Gorbačëv
di Adžerom
nella stessa persona. I genitori di Smilingis furono
deportati a Pezmog dalla Lituania nel 1941, quando Anatolis aveva 14
anni. Già da 60 anni raccoglie informazioni sui lager, negli ultimi
20 costringe a parlarne.
Ci incontriamo con Antonyč
alla Casa dei Pionieri. Apre infinite cartelle con fotografie di
baracche del Lokčimlag,
registrazioni di interviste di ex prigionieri, carte di punti lager
e cimiteri…
Per 70 anni Smilingis è andato a piedi per tutta la
Repubblica dei Komi, ha visto resti di lager e villaggi speciali, ha
ascoltato racconti di prigionieri dei lager, ha riportato sulla
carta 50 centri abitati-lager dimenticati e oltre 20 luoghi di
sepoltura (negli archivi dello FSB [14]
queste informazioni sono ancora chiuse).
– Sono rimasti molti cimiteri? – chiediamo.
– Non ci sarà fine, – dice tranquillo.
Al posto di tombe senza nome Antonyč
ha posto 16 croci, la prima di esse sul cimitero del Secondo
Settore, il centro abitato dei deportati, dove vive. Non si è
rivolto all'amministrazione del distretto: ha trovato due tubi
spessi da un rottamatore, li ha saldati a croce…
– E come ha fatto la targa sulla croce? – chiedo
per gentilezza, ma improvvisamente Smilingis si perde.
– Capite… da noi qui cadono razzi che vengono da
Pleseck [15]. Beh, e
questo… In generale è metallo che viene dal cosmo.
Antonyč
non intendeva occuparsi della ricerca dei cimiteri.
Semplicemente circa 10 anni fa un moscovita sconosciuto gli chiese
di trovare la tomba di suo padre, sepolto nel cimitero del lager
presso il centro abitato di Nidz' [16].
– Telefono a dei conoscenti di Nidz', chiedo: da
voi c'è un cimitero? – ricorda Smilingis. – C'è, dice, solo
che là c'è una cava di sabbia. Ci siamo andati, vediamo: una cava,
una fossa, scavatrici e sulla sabbia ossa umane.
In seguito Smilingis stesso scavò fuori dalla
sabbia ossa e teschi, andò all'amministrazione locale, invocò che
si fermassero i lavori. I resti furono sepolti, ma qualche mese dopo
si chiarì che parte delle ossa con la sabbia erano stati portati
nel centro abitato di Ust'-Lokčim
[17], dove per tutta
l'estate giacquero per strada davanti a un club. Adesso Smilingis
cerca i cimiteri da solo.
– Ma le servono queste tombe? – provoco. Antonyč
tace.
– Da pischello [18]
lavorai nel Secondo Settore, – dice lentamente. – Ci portarono
dei deportati iraniani. Vecchietti ingobbiti, magri. Il capoturno
dice: li porti alla divisione, gli mostri come abbattere gli alberi.
Li porto per un chilometro nella neve – camminano a malapena.
Quattro persone, un'ascia, una sega. Li portai, segai gli alberi
secchi, accesi un falò, mostrai cosa e come… Dissi: a sera verrò
a prendervi. Ma a sera vado e sento che qualcosa non va. Ho
l'angoscia. Mi avvicino di più: nessun falò, niente… E come
sedevano siedono. Non avevano gettato un solo ceppo nel falò. Dopo
ho sognato a lungo come io, pischello, vado a prenderli e questi
siedono, morti.
Smilingis non conosce le tombe dei propri familiari:
suo padre fu fucilato nel '41 presso Krasnojarsk [19],
sua madre morì un anno dopo da qualche parte nella Repubblica dei
Komi.
Fossette e poggetti
In qualche modo all'inizio degli anni '90 l'abitante
di Adžerom
Nikolaj Andreevič
andò nell'orto a piantare patate. "Guardo, – dice, – e in
mezzo all'orto ci sono un piccolo recinto e una piccola croce".
Risultò che erano giunti i nipoti di una deportata e avevano
recintato la tomba della nonna…
Nel Lokčimlag
morirono in molti. Se si creda all'archivio dello NKVD [20],
nel 1939 qui c'erano 26242 reclusi e nel 1941 solo 10269, anche se
in tutto questo tempo i contingenti avevano continuato ad arrivare.
Come ha calcolato Smilingis, 8 metri cubi di legname valevano una
vita umana.
Le sepolture erano di gruppo: fosse tonde tra i
boschi tagliati dai prigionieri del lager. Finché la fossa non si
riempiva, la coprivano di rami, poi la coprivano di terra. I vecchi
ricordano come le loro madri andavano nel bosco e furtivamente
coprivano con terra gambe e braccia che sbucavano.
Finora Antonyč
ha trovato 10 cimiteri del Lokčimlag.
Cominciano subito fuori dal centro abitato, cosicché i boschi
intorno sembrano scavati a fosse. Circa 70 anni fa al posto delle
fosse c'erano colli, ma la terra si è assestata, si è ispessita,
le tombe sono franate.
Tutti conoscono le fosse nei boschi intorno a
Adžerom.
Le opinioni si dividono solo su due punti. Punto primo: se
fucilassero nei boschi o ci seppellissero solo i morti (la
maggioranza è sicura che fucilassero). Punto secondo: si possono
raccogliere funghi e bacche nelle fosse o bisogna andare in un altro
bosco? La maggioranza li raccoglie.
La questione dei funghi è una questione di
principio. D'estate mezzo centro abitato si riversa sulla strada a
vendere funghi bianchi, porcini, mirtilli rossi e lamponi artici. I
lamponi artici, a dire il vero, crescono a 20 km dal centro abitato,
perciò si usa andare a cercarli alle tre di notte. Però sono dei
bei soldi: 30 rubli [21]
al bicchiere.
– Lo sapevamo dall'infanzia: dove ci sono
cimiteri, ci sono fosse. Dove ci sono fossette, c'è umidità e ci
sono porcini, – dice la bibliotecaria scolastica Ljudmila
Žamaletdinovna.
– Vado per funghi e mi dico sempre: "Beh, sconosciuto, cosa
mi darai oggi?" Solo che vendo sempre questi funghi, io stessa
non li mangio.
– Ma bene, – si stupisce l'insegnante Galina
Ivanovna. – Questo è un dono!
– Sulle ossa?
– Ebbene! Dall'altro mondo a noi.
Smilingis ci porta a lungo per il bosco, mostra
vecchi rifugi interrati, luoghi di fucilazioni e gira intorno a
vecchie fosse coperte di muschio. Si sollevano giovani pini stretti,
mormora un tenero boschetto di betulle, il sole cala obliquo su un
fitto e duro cespuglio di Cladonia Rangiferina [22]…
Improvvisamente capisco che il bosco è cresciuto insieme al
cimitero, le prime fosse sono comparse sui tagli boschivi freschi, i
pini si sono sollevati da terra mentre entravano in essa corpi per
cui non si faceva lutto né pianto.
Ma – paradosso – qui, dove la morte dev'essere
fusa con la vita, intrecciata ad essa come le radici dei pini con le
tombe senza nome tra loro, questa è risultata gettata fuori,
dimenticata, si è coperta di muschio vittorioso. I cimiteri sono
esclusi dalla topografia del centro abitato e la morte è esclusa
dalla vita, dal pensiero, dalla memoria. La gente che giungeva a
Adžerom
negli anni '60 ricorda ancora le rare croci e le piccole
recinzioni in mezzo al bosco – le tombe dei deportati. Ora di
tombe con la croce e la recinzione ce n'è solo una. Il resto è
semplicemente bosco.
Nel Cremlino
Il Cremlino stava proprio nel centro del lager. Il
Cremlino era circondato da una doppia palizzata fitta di travi. In
cima alla palizzata fitta sbucavano picche, tra le palizzate fitte
correvano cani da catena. C'erano 20 zone [23]
nella RSS dei Komi e tutti erano sottoposti a questo Cremlino.
Succedeva che un tiratore saltasse fuori dal Cremlino nella zona
bianca, portasse con se una persona – e questa persona non tornava
più…
La casa che ha creato tanti miti fu costruita nel
1932 per la famiglia del capo del lager. Quando il lager fu chiuso,
là fecero un orfanotrofio, in seguito un convitto per insegnanti
scolastiche, una grande kommunalka [24]
e verso gli anni '80 fu praticamente abbandonato.
– Pareva che la casa stesse per cadere. E quando
prendemmo a fare un restauro, mio marito tagliò le travi –
volavano vere e proprie scintille, come se fossero state di ferro.
Sediamo dalla padrona del Cremlino Vera
Vjačeslavovna
Kut'kina. Adesso la vecchia casa sembra un annesso della
nuova, costruita dai Kut'kin in questi anni. Nel cortile posteriore
ci sono conigli, capre e polli. Nel praticello davanti alla casa c'è
un orto curato e un'intera fontana.
Il Cremlino sta su un colle davanti al vecchio letto
del fiume Vyčegda,
nel punto più alto del centro abitato. In precedenza dalla porta
all'acqua portava una scala di assi marcita da tempo.
– L'acqua era alta, c'era molto pesce, –
racconta Kut'kina. – Dicono che davano 200 grammi di pane a questi
reclusi e anche una zuppa di pesce. E ogni notte gli sparavano! E là
fuori, nel bosco, li seppellivano.
Vera Vjačeslavovna
ha sentito anche che nella casa vicina viveva il cocchiere personale
del capo del lager e quando dagli ufficiali giungevano le
mogli, questi andavano insieme sul fiume con delle barchette. Le
donne avevano ombrellini bianchi di trina, vestiti lunghi e calzette
con nastri. Vera Vjačeslavovna
cerca perfino nell'album di famiglia le foto di tali calzette,
ma non le trova e sospira umilmente: "Da noi le portavano più
semplici. Per gli ufficiali era un lusso".
…Siedo a lungo sul colle presso il fiume. Dagli
anni '30 il livello dell'acqua è calato e attraverso le alghe
guardano i fantasmi di travi affondate. Il burrone si è coperto di
vegetazione, sul pendio sono venute fuori radici di pino agganciate,
rapaci. Sull'altra riva cominciano prati alluvionali, il Cremlino si
eleva su di essi e improvvisamente capisco che alla base della
pianificazione del centro abitato-lager c'è la matrice della tenuta
nobiliare; la nuova nobiltà cekista [25]
costruiva il proprio mondo sullo schema consueto, distrutto ma non
scomparso: un parco, una spettacolare discesa verso l'acqua e case
dei tiratori servi della gleba intorno…
Vera Vjačeslavovna
ci ospita per la notte. Nella camera da letto del capo del lager
d'estate sono ospiti i suoi nipoti, perciò adesso qui ci sono una
carta da parati rosa con dei gattini, giocattoli di peluche, un
calendario con i coniglietti… Il crepuscolo nella stanza sembra
rosso, probabilmente per via delle tende.
– Ascolti, – non mi trattengo. – Si ricorda
cosa pensava quando è venuta a sapere che avrebbe vissuto nella
casa del capo di un lager?
– Ricordo, – risponde da una nuvoletta rossa
Vera Vjačeslavovna.
– Che felicità che adesso ho una casa mia.
Si dorme bene al Cremlino. E' afoso, a dire il vero.
E ci sono le zanzare.
Il carcere di
isolamento
All'entrata nel salotto in casa Sjutkin è appesa
una ghirlanda di perline multicolori. Cambia colore alla luce,
dondola, si spande a macchie colorate sul divano, sui tappeti, sulla
carta da parati rosa e sul quadro di Repin [26]
"I tre bogatyri"
[27].
– Qui c'era una porta, – Aleksandr Avenirovič
Sjutkin sposta con trascuratezza la ghirlanda. – Con lo
spioncino. Ecco, sullo stipite c'è un gancio, vedete? Là si
reggeva il catenaccio. Qui c'era una cella comune.
– E in cucina?
– Quale cucina, questo è un carcere di custodia
cautelare!
Ma più di tutto Sjutkin è orgoglioso della propria
camera da letto: "E' una cella singola. Da qui portavano via e,
dicono, non riportavano più".
Portarono Aleksandr nell'edificio dell'ex carcere
nel '61, quando era un bambino. Quando alla fine degli anni '50 sua
nonna deportata si trasferì qui, sui tavoli c'erano ancora spesse
cartelle con i materiali di indagine.
– Tutti mi chiedono: non è terribile per te qui?
– dice Sjutkin. – Eppure io non c'ero quando qui erano in
prigione. Vivevano e vivevano. No, non discuto, probabilmente
portavano via carichi-200 [28].
Di fame, di freddo… Pensate che li nutrissero qui?
Sjutkin rimpiange un po' il passato: "Avevamo
l'industria del legname, le migliorie agrarie e i sovchoz".
Adesso che nel centro abitato non c'è lavoro Sjutkin, come pure
metà degli uomini di qui, va a guadagnare al Nord.
– Petrolio-gas, – spiega arrabbiato. – Li
tengono solo i banditi. Li hanno arraffati negli anni '90…
– Saša,
sii più prudente, – appare dalla cucina sua moglie, l'insegnante
Elena Ivanovna. – Ora è un tempo che per queste parole possono
anche…
– Sì, d'accordo, ho vissuto la mia vita, –
scuote le mani il marito. Ma sul tempo, pare, è d'accordo.
– E stalinisti a Adžerom
ci sono? – chiediamo.
– Ohi, a noi questi non interessano, – si
stupisce Elena Ivanovna.
– C'è l'autocrazia qui, – concorda Aleksandr
Avenirovič. – Non ci
sono manifestazioni. E questi vostri, di Mosca, non ci sono. Beh,
nazionalisti.
– Ma da noi in generale non c'è alcun focolare di
cultura, – sospira Elena Ivanovna.
La soffitta della casa odora disperatamente di
catrame, di legno arroventato al sole, di polvere. Nelle finestre
scende la calda luce serale, scansa i tubi della stufa…
– Eccoli i tubi, quanti, una stufa ogni due celle,
o – agita la mano Sjutkin. – Guardate qui.
Sulla pesante trave di legno sopra al tubo della
stufa scende un raggio di sole. "Stufa preparata: brigadiere
Ignatov, addetti alle stufe Merilin e Lazarev. 7.09.1938" –
leggiamo.
Scene di vita
familiare
…Nelle vecchie fotografie in bianco e nero
dell'album dei Generalov ci sono scene felici di vita familiare.
Accoglienti ziette con scialli di piume sorridono al fotografo, due
pischelli con i berretti con i paraorecchie si appoggiano
solidamente a un fucile. Un secco vecchietto di grande portata con
le sopracciglia arruffate tiene in braccio un nipote ben coperto,
reso tondo dai vestiti. Lo stesso vecchietto con la moglie,
accigliato e arrabbiato. O l'espressione del viso è davvero cattiva
o così mi sembra…
– Beh, che non era buono è giusto. Noi piccoli
poteva anche picchiarci e probabilmente comandava la moglie. Allora
era di moda comandare le donne, – Nina, moglie del nipote di
Generalov, ride sonoramente.
Il tenente Generalov, a Adžerom
ne sono sicuri, era responsabile delle esecuzioni delle
condanne alla fucilazione.
In servizio nel lager il soldato del fronte Ivan
Egorovič Generalov
capitò dopo la guerra. Del lavoro non raccontava mai nulla a casa,
la nonna a certe domande diventava di botto sorda e sviava il
discorso. "Neanche mio padre sapeva nulla", – è sicuro
il nipote di Generalov Aleksej. Questi ricorda bene che non amavano
quelle faccende. Ma su di lui l'atteggiamento della gente del centro
abitato per quelle faccende non è passato.
Dopo la chiusura del lager Generalov diventò un
guardaboschi. Si manteneva autonomo, andava per i boschi da solo.
"Come se qualcosa lo chiamasse", – spettegolano a
Adžerom.
E aveva uno strano fucile da caccia. Dicevano che era troppo lungo,
come se non fosse per le bestie. E nell'autunno 1997 l'83enne
Generalov se ne andò.
Lo cercarono per quattro giorni, passarono al
pettine tutti i boschi vicini. Ma lo trovarono già a quaranta
chilometri di distanza. Il tiratore aveva entrambe le gambe
congelate, toccò amputargliele.
Morì, dicono, con difficoltà.
Alle domande dei familiari rispondeva che l'avevano chiamato nel
bosco gli amici del fronte.
Solo funghi
– Che, direttamente da Mosca? No, davvero? Nel
nostro centro abitato che comincia per "ad-" [29]?!
Alla sera la vita di Adžerom
si concentra intorno al negozio "Dlja vas" [30].
A chi giunge qui ricordano la barzelletta di turno di Adžerom
sul fatto che "a un bel posto non danno un nome che comincia
per "ad-"" e la consunta storia della sabbia: dice,
gli zėki
hanno calpestato via l'erba, adesso qui c'è sabbia ovunque, per
causa loro le piogge non cadono su Adžerom
e d'estate qui c'è sempre siccità (pensavamo che fosse una
storiella, ma quando siamo tornati dalla Adžerom
arroventata dal caldo si è rivelato che intorno ad essa
infuriavano le tempeste).
– Abbiamo un luogo maledetto, ragazze. Forse il
lager ci ha maledetti. Intorno cade una pioggerella – da noi no.
Divinità, dacci della pioggerella! Niente… – sospira ubriaco il
30enne Sanja. Nel centro abitato capitò da piccolo, insieme alla
mamma: "Non è una zėčka
[31], niente del genere. Semplicemente infelice".
Chiediamo se nel centro abitato è rimasto qualcosa
dei tempi del lager. Tutti ricordano la base agraria e "Shanghai".
– E quella fossa da noi nel bosco, dove ci sono i
funghi? Quale c...o di fossa, porca p...a [32]?
– riflette improvvisamente l'abitante di Adžerom
Vitja.
– In c...o da noi le fosse, – scuote le mani il
suo amico Sergej. – Che, hai preso la vodka, ma non il vino? –
dice già all'amico.
– Siamo maledetti, del tutto maledetti, –
sospira ubriaco Sanja. Gli altri ridono sguaiatamente
– Bisogna scavare nelle fosse. – A Vitja
evidentemente piace questo pensiero. – Forse trovo un elmetto o
una baionetta.
– Quale elmetto, la c'erano dei reclusi, non
combattevano!
– Sì? – Vitja digerisce l'informazione per un
minuto. – Ma qualcosa di loro è rimasto? Cavolo, per strada ci
sono solo funghi.
Per tre rubli [33]
Nove di mattina, ai margini di Adžerom.
Sulla strada per il cimitero del lager inciampiamo in una fossa
enorme. Dentro c'è un cesto di nastro metallico rugginoso, intorno
sette persone: birra, vodka, antipasti, pale…
– Gua' [34]
che abbiamo trovato, ognuna pesa due chili!
Lo scavatore Volodja mostra un carrello carico di
pezzi di cingoli di trattori arrugginiti e coperti di terra. Al
tatto i pezzi sono ruvidi, freddi e pesanti, davvero due chili.
Nella carriola ci sono anche pezzi di tubo e di quello stesso nastro
metallico. In generale la mattina si è rivelata fortunata.
– C'è ancora qualcosa, – scuote le mani
Volodja. – Qua c'è metallo dappertutto! Qui c'era un lager, sai?
Andiamo nel bosco, ti mostro le tombe!
I ragazzi scavano un anno intero, certo, quando non
raccolgono funghi e non bevono. Si può fare un guadagno extra, ma
non basta per vivere, la maggior parte del "metallo del lager"
è stato comprato in quantità già negli anni '90 e il fil di ferro
è stato ripulito ancora prima: per recintare gli orti.
– Ma che fai con quel fil di ferro? Sai quanto
viene al chilogrammo? E' semplice… – Volodja cerca di scegliere
le parole. – E' eredità del lager, non rottami metallici.
A Adžerom
prendono l'eredità del lager sui 3 rubli al chilo. Però a
Kortkeros già sui 5 rubli [35].
L'ospedale del lager
La conservazione della memoria storica nel distretto
di Kortkeros non è merito solo di Smilingis, ma anche, per quanto
sia stupefacente, del presidente Putin. Ciò è particolarmente
stupefacente per Smilingis.
Fatto sta che ancora durante il primo mandato
presidenziale Vladimir Putin intendeva andare nella repubblica dei
Komi. L'amministrazione della repubblica ricordava che da qualche
parte qui nel 1972 il presidente aveva fatto pratica in un reparto
studentesco e aveva deciso che aveva voglia di vedere questi luoghi.
In una notte asfaltarono la strada da Kortkeros
vicino a Adžerom,
ripulirono i lati e in un canale presso la strada (per non far
svoltare il corteo) piantarono una pietra con una targa: "Ai
prigionieri dei lager dei boschi".
Smilingis e sua moglie qualche tempo prima avevano
trovato la grande pietra rosata nel bosco, l'avevano portata a
Adžerom
e avevano deciso di porla in un luogo visibile nel centro abitato.
– Una mattina mi chiamano: vieni, inaugureremo la
tua pietra, – ricorda Smilingis. – Guardiamo: l'avevano piantata
proprio nel canale presso la strada. Come se buttassero di nuovo la
gente nella fossa.
Ma Putin comunque non venne. "Lo ringrazio",
– dice calmo Smilingis senza chiarire perché.
Ora la scala per la pietra è già marcita, dietro
di essa si vedono tracce di falò e intorno sono stati piantati
piccoli fiori gialli.
– Ho piantato piante longeve perché ci siano ogni
estate, – dice Valentina Vokueva. – Il 30 ottobre preparo prima
una pentola di zuppa, preparo il tè, accendo un falò. Giungono i
veterano, i figli delle vittime delle repressioni – in tutto circa
10 persone. Sediamo qui e ricordiamo. E ricordiamo mia madre, era
una tiratrice.
La casa di Valentina e Vasilij Vokuev è al margine
di "Shanghai", il monumento è subito dietro il loro orto.
Smilingis è sicuro che in precedenza in casa Vokuev ci fosse
l'ospedale del lager, ma Valentina non è d'accordo: "C'era un
dentista qui. Dove da noi c'è la camera da letto – là viveva. E
dove c'è il televisore già curava gli zėki".
I Vokuev comprarono casa dopo il matrimonio: "Siamo
giovani, abbiamo bisogno di frequentarci e conoscerci". Fecero
un annesso, ci misero la cucina, "i bambini vennero come
funghi".
– Vado a scuola e vedo: ogni giorno mi viene
dietro un trattore. Vado via da scuola – viene di nuovo. Arrivo a
casa – il trattore sta sotto le finestre. Adesso penso che Vas'ka
mi tenesse d'occhio. Perché talvolta mi spoglio, sto davanti allo
specchio – sono una ragazza giovane, – mi guardo… E le tendine
sono aperte.
– La seguivo io! – il placido Vasilij Vasil'evič
d'un tratto salta su. – Ma a casa non mi avvicinavo! Dice
sciocchezze, porca p…a! – sbatte la porta offeso.
– Poi mi invitò a ballare, – continua Valentina
senza scomporsi. – Ma io non ci andai perché aveva bevuto. "Io,
– dico, – non ballo con gli ubriachi!» Andò via, poi ritorna:
"I ragazzi mi hanno detto che se non vieni a ballare, bisogna
che ti picchi sul muso". – "Ohi, – dico, – ti darei
il resto. Sai quanto amo fare a botte?" Ecco che viviamo ancora
insieme. Vasja, vieni qua, ti do un bacio!
Valja ha visto di persone il medico del lager che
viveva nella loro casa: la famiglia si trasferì nel centro abitato
negli anni '50. Valja ha avuto un'infanzia felice. Sua madre
lavorava come guardia e Valja era orgogliosa di lei. "Era
bella: con la giubba e con il fucile. I reclusi che sono rimasti a
vivere qui la stimavano molto. Raccoglievano la verdura alla base
agraria ed ella di passaggio verificava che non portassero via
qualcosa. Sente al tatto, per esempio, che c'è una patata nel
cappello – ma non li denuncerà mai".
– Ma nel centro abitato non facevano divisioni tra
chi era un recluso e chi era una guardia?
– Ma nooo! O – scuote le mani Valentina. – Era
tutto o-kay.
A dire il vero, tra loro i genitori di Valentina
parlavano sempre piano: "Forte, dicevano, non si può, sennò
"arriva il corvo nero. Ci sono orecchi dappertutto". Avevo
quattro annetti e da noi pendeva la radio – nera, terribile. Così
pensavo, la radio – anche quella ha gli orecchi".
La notizia principale alla radio erano le fughe.
Finché per i boschi in cerca di fuggitivi vagavano reparti di
tiratori e liberavano i cani dai canili dietro la base agraria gli
abitanti del luogo sedevano in casa. Questo succedeva, a dire il
vero, non spesso: non c'è dove fuggire nella Repubblica dei Komi.
D'estate i bambini capitavano nelle stalle dei
cavalli (la base agraria aveva la propria mandria). Il mandriano, il
coreano deportato Cojchari, gli permetteva di star dietro ai
cavalli.
– Puliamo ogni cavallo, ci badiamo, lo portiamo al
pascolo, – ricorda Valja. – Vado più lontano, perché Cojchari
non veda e salto in groppa senza sella. E con tanta classe! Lo
spingo al galoppo, metto le mani ai lati – e voloo!
E, già nonna, Valja sorride felice, ricordando come
volava il suo cavallo per colli e burroni, lungo il filo spinato,
accanto a baracche e torri, lontano, lontano per i colli.
E il cavallo aveva un nome – Nežnyj
[36].
I "politici"
A ogni persona con cui parliamo a Adžerom
– sia alle vittime delle repressioni, sia ai figli dei loro
guardiani, – facciamo le stesse semplici domande: perché le
persone erano prigioniere? Come finivano nel lager? Chi è colpevole
delle repressioni?
Le risposte sono indistinguibili.
"C'era quella politica. Perché avessero paura.
Sotto Stalin tutti avevano paura".
"Erano politici. Ma perché fossero prigionieri
non l'ho mai chiesto. In qualche modo sono indifferente a questo. Ho
studiato, ho servito, ho lavorato".
"Organizzarono il lager e ci mandarono gli
zėki".
"Per quale motivo ci chiedete perché? Non ci
riguardano – ed è bene".
"E' politica! E' tutta politica. Non siamo
criminali, non abbiamo fatto niente. Il Signore ci ha dato questa
croce".
Adžerom
sembra ancora schiacciata dal terrore. Non di quelli sotto i
quali temi di fare qualcosa, di quelli che lavano dalla coscienza lo
stesso pensiero della possibilità di agire.
Per anni a Adžerom
si è elaborato una lingua particolare, menzognera e sfuggente. I
cimiteri del lager in essa si sono trasformati in "sepolture",
le tombe in "collinette" o "poggetti", la parola
"lager" è diventata un semplice toponimo e del GULag non
si dice mai "è stato chiuso". Solo "è finito".
I ricordi degli abitanti di Adžerom
sul GULag sembrano racconti di una qualche belle epoque: la
mamma era giovane, il papà aveva indosso un bel giubbotto da
ufficiale, vicino viveva il buon prigioniero del lager zio Lëša,
facevano amicizia in tutta la baracca e i venerdì un fisarmonicista
suonava al club. In questa felicità infantile, luminosa come le
notti estive nella Repubblica dei Komi e penetranti come i suoni
della fisarmonica si fondono non notate e non ricordate le torri, la
recinzione di filo spinato e le "fossette" nel bosco.
Sembra che in 70 anni nella coscienza della gente si
sia verificata una strana costrizione: ciò di cui non si può
parlare ha come cessato di esistere. Ma ciò che è del lager non è
stato distrutto, non è stato eliminato dalla memoria, ma è solo
passato a qualche altro profondo livello di coscienza e nascosto là,
come un rivestimento di legno sotto le tegole fresche dell'ex
prigione.
Ricordo altri luoghi di lager postumi, lasciati
dalla gente: le travi sui giacimenti di molibdeno nell'Altai con
scodelle e giubbotti mezzi marciti dimenticati dentro. Epilobio [37]
che si agita sui luoghi delle baracche bruciate lungo la Višera
[38]. Le miniere
abbandonate di Vorkuta. E penso che questa è la vita: che fugge,
che lava via, che lascia dopo di se vuoto e rovine – ben più
oneste dell'afosa comodità delle abitazioni del lager.
Souvenir
– Avete chiesto del filo spinato? Andiamo, ve lo
mostro.
Il figlio di tiratori Evgenij Glebovič
Vlasov ci porta alla casa dei genitori. La Volga [39]
saltella sulla strada sabbiosa e ai lati si vedono assi seccate,
sbiancate dal sole e coperte di Cladonia Rangiferina – lastricati
di travi dei tempi del lager.
In mezzo alla casa costruita nel 1937 ci sono letti
con testiere di ferro e alti cuscini inaspettatamente curati, carta
da parati con grandi rose e sulla stufa fredda c'è un samovar.
Sembra che presto arriveranno mamma guardiana e papà tiratore.
In precedenza nella casa vicina viveva lo zėk
Oparin, che era stato prigioniero per 25 anni e nella successiva il
tiratore del lager Borodul'kin. Si frequentavano da vicini, bevevano
insieme la sera. Più avanti c'è la casa di Kovalenko: soldato di
Vlasov [40], zėk
e poi meccanico del centro abitato. A Adžerom
lo stimavano, solo il Giorno della Vittoria [41]
non lo salutavano.
Presso la recinzione, dietro accurati orti di
patate, sbuca un grande cespuglio rossiccio – una matassa di filo
spinato coperta d'erba.
Vlasov lo strappa dalla terra come un enorme
erbaccia. Il filo molleggia elastico e sugli orticelli pende un
suono metallico, come se strappassero una corda. Sembra che il filo
sia cresciuto nel terreno, abbia messo radici confuse nella terra,
si sia unito in un intrico naturale di sostanze.
Salutandoci, Vlasov ci rompe un ramo del cespuglio –
"come souvenir". In alto il filo si è arrugginito, si è
fatto sottile, si è coperto di muschio giallino. Ma sul punto di
rottura è pericolosamente e allegramente argentato. Come nuovo.
Elena RAČËVA,
Anna ARTEM'EVA (foto) [42]
Adžerom
– Kortkeros
P.S. Poco
tempo fa il padrone di una dacia di Kortkeros trovò nel suo orto
una testa di Stalin. La tirò fuori, la pulì e la porto a Smilingis
"perché non si perdesse". La testa fu posta nella Casa
dei Pionieri, nel giornale distrettuale uscì un trafiletto.
– Un mese dopo bussa un pensionato, – ricorda
Smilingis. – Racconta: quand'era piccolo, la testa stava
all'ingresso della scuola di Kortkeros. Tutti quelli che entravano
dovevano togliersi il cappello davanti alla statua e dire: "Salve".
Ma poi si abbatté il ХХ congresso [43].
Dal nonno dell'attuale pensionato, allora custode della scuola,
giunse il direttore e ordinò: togliere Stalin, rompere il busto,
levare di torno i rottami.
Il custode era un deportato, ma amava la "guida".
La sua mano non riusciva a rompere il busto. Come raccontò il
nipote a Smilingis, il nonno lo svegliò di notte, lo portò alla
scuola, misurò a passi la distanza dall'angolo, scavò una fossa,
sotterrò Stalin e disse: "Ricorda. Io morirò, ma tu, quando
verrà il tempo, lo tirerai fuori".
Adesso la testa sta nella Casa dei Pionieri tra
telai, samovar e scatolette di betulla. Un occhio della "guida"
è pesto, un pezzo di guancia è caduto, i baffi si sono consumati…
– Salutare e togliersi il cappello, ti immagini?
Mi è perfino difficile immaginare che sia stato così. –
Smilingis aggiusta la testa e a questa piano, come in un filmato
rallentato, comincia a cadere il volto.
– Il naso cade! Tieni il naso a Stalin!
Si fa sera, dietro le finestre si sente l'abbaiare
dei cani e il ronzio delle zanzare, i telai odorano di legno umido,
la testa di terra bagnata. Mandando al diavolo e brontolando, un ex
deportato mette il naso all'ex tiranno. E improvvisamente sembra che
di loro, di testimoni del tempo, ne siano rimasti solo due. E che
nel mondo intero non ce ne sia nessuno, tranne loro.
"Novaja gazeta",
http://www.novayagazeta.ru/society/53674.html
(traduzione e note di Matteo Mazzoni)